La bella Mantova

Pubblicato il 21 ottobre 2014 su Resoconti Esperienze da Adam Vaccaro
“Quod huic deest me torquet “
Nella bella Mantova i vizi d’amore
non sono affatto un tormento.
di Patrizia Gioia

L’Italia è terra fertile d’ogni specie di fertilità, frutti fiori e animali, paesaggi acque e monti, dialetti volti sguardi, cibi e vini.

Ma ce ne dimentichiamo spesso e, invece che prendere un treno e visitare una terra confinante,  sgomitiamo tra timbri bolli code e aeroporti disperdendoci tra frotte di turisti che non vogliono trovare qualcosa di nuovo in loro, ma dimenticare quel che sono.

La visita delle terre mantovane e di questa bellissima città mi ha fatto trovare l’odore il colore e il sapore delle mie antiche radici, la nonna materna arriva da qua, un misto d’acque e nebbie,

controluce di profili fatti di merli torri e cupole, un dialetto meticcio che ancora parla di signori

e servi, di corni da caccia e rintocchi di campane.

Non avevo ancora trovato un luogo che facesse eco alle mie origini, quell’emergere di immagini che trovano accoglienza in noi, quel ritrovarsi a casa che leggi infinite volte nei libri, ma che solo facendone esperienza comprendi fino in fondo, un senso d’appartenenza antica, come un verso di una poesia che riconosci tra tante, come tuo.

Non sto ad elencare le bellezze di questa città, abbracciata da due laghi come da due ali d’angelo a protezione d’una ineguagliabile bellezza; azzurri cieli sfumati e una composizione di verdi disegnano, con la calda atmosfera dei rossi mattoni, stanze degli Sposi e cadute di Giganti,

mesti Fauni con il pene eretto accanto a leggiadre ragazze inesperte d’amore, ma tutto senza volgarità, senza  inorgoglirti o spaventarti, solo segni d’una oralità di cascina, una ninna nanna per scaldare la notte tra rumori di foglie di granoturco giallo e grilli neri; castelli a misura d’uomo dove ancora puoi trovare, tra quegli infiniti affreschi, visi che ti sembra di avere già incontrato, abiti che la seta fa ancora cantare, pavimenti di legno che fanno da armonico sottofondo a passi svelti, ma non ancora ghigliottinati dalla fretta in cui siamo oggi imprigionati.

Si respira Cultura, desiderio di viverci dentro, di andare incontro al rischio del nuovo; certo ancora tra armi e tradimenti, tra patteggiamenti proficui e uccisioni alle spalle, qualità dell’umano che stazionano rigide ancora in noi, noi che avremmo dovuto invece comprendere qualcosa da quegli errori e , trasformandoli, trasformarci.

I Gonzaga qui imperversano sornioni, rubizzi, tra grosse labbra e nasoni, paiono ritratti dell’Arcimboldo, rubano ai Bonaccorsi tutto quello che c’era da rubare, decapitano una giovane sposa, accusata ingiustamente d’adulterio, pur di staccarsi dai Visconti e distruggere ogni “biscione”, dimenticando che il Serpente è sempre presente.

Reliquie della Terra dove il Cristo fu trafitto dall’ultimo tocco di lancia, si trovano e si perdono e si ritrovano, più si cade nella terra più forte e inconscio è il desiderio del cielo; riti ancora vivi ma di ormai sconosciute energie si muovono tra cittadini che pellegrini non sanno più d’essere; il bellissimo Duomo, d’un gotico non ancora snob, che viene abbattuto per una modernità ignorante.

La piccola città ti mostra come in uno specchio la nostra caricatura d’oggi, sa ancora parlare al cuore, ha nelle mani la zappa e un pugno di terra buona da tornare a rispettare.

Nei sapori delle sue zucche tutta la morbida dolcezza dei grandi seni delle belle donne che dondolano sui figli e sul fare la pasta: ” preparare il cibo, toccarlo con le mani è avere Dio seduto accanto a me col tovagliloo in mano ” dice il verso di una mia poesia.

Vi invito a fare una passeggiata in questa città e ad andare a mangiare in una simpatica trattoria che ti fa sentire a casa, cibo genuino cucinato bene, cantina fornitissima, gentilezza nostrana; si chiama Fragoletta, come il soprannome di quell’ex attrice ( Signora Balletti) nominata dal Goldoni nelle sue Mèmoires “che aveva brillato nella parte della Servetta e che, ritiratasi ..a ottantacinque anni conservava ancora quella vestigia della sua bellezza e una luce viva e piccante della sua intelligenza”.

E vi saluto rivelandovi il motto latino che ho messo come esergo e che Francesco Gonzaga aveva fatto suo ( lo troverete nel palazzo Te) : quod huic deest me torquet (ciò che manca a costui mi tormenta); il ramarro infatti era ritenuto l’unico animale insensibile agli stimoli dell’amore, ed era impiegato come contrapposizione concettuale al duca e alla sua natura sensuale e galante, che invece dai vizi dell’amore era tormentato.

Ma a Mantova i vizi d’amore non sono affatto tormento, te li vivi e te li godi perchè son tanto umani e qualche volta fa bene esserlo animali terreni, l’importante è non dimenticarsi mai d’essere anche angeli del cielo !

I semi della gioia

www.spaziostudio.net

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