Sono stata via settecento anni. di Rosella Scarabelli

Pubblicato il 18 giugno 2008 su Recensioni e Segnalazioni da Maurizio Baldini

Rosella Scarabelli, Sono stata via settecento anni, La Vita Felice, Milano 2007.

Una Sheherazade che racconta un canzoniere d’amore che, come acutamente nota nella seconda post-fazione Piero Marelli, «non racconta storie ma luoghi particolari» (p.107). Un canzoniere d’amore mistico, con svelti quanto alacri richiami alla Passione, con la dirompente tensione amoroso-conoscitiva che ci riporta, come osserva con lungimiranza prospettica Gabriela Fantato nella prefazione, al XIII sec., al movimento delle beghine di Fiandre e Germania, che «prese le mosse dal pensiero mistico di San Bernardo, vicino a Sant’Agostino e alle sue Confessioni […] ma soprattutto dal pensiero di Guglielmo, abate di Saint-Thierry, un mistico audace che fondava il percorso di conoscenza religiosa nell’esperienza amorosa in Dio, esperienza “carnale” e mai astratta» (p.5), proprio come in questo libro di Rosella Scarabelli. Un libro complesso, composto di molti fili: l’Odissea di Omero e di Dante, l’opera di Leonardo da Vinci, sia come pittore sia come architetto, Tasso, Camôes, Pessoa, Eliot, e luoghi come la Brianza, l’Adda, Parigi, Lisbona, chiese gotiche e barocche, (luoghi e autori filtrati dal proprio sguardo e dal proprio vissuto).

C’è una dimensione cosmica in questo libro plasmata dalla presenza paradigmatica dei quattro elementi della fisica antica. Tra questi Bachelard riconoscerebbe l’egemonia degli elementi più gravi, onerosi, quelli che trascinano sotto, risucchiano in basso, avviticchiano ai fondali, l’acqua e la terra. Si tratta di una scelta morale: «in campo settimo. Lì non è importante/ calcare le scene./ Lì più importante/ è calcare la terra di un campo/ quemadmodum santo» (p.67). Una decisione che risponde a un desiderio di abbassarsi per capire l’altro e auscultare se stessi, adagiarsi al suolo, rannicchiarsi per raccogliere e potenziare il proprio sentire rasoterra: «Fammi andare/ là può darsi che ti senta potermi sistemare nella piega/ della terra dove è facile/ che passi il tuo sentire / sdraiata/ su questa erba impastata con la neve di una volta/ adesso che viene tiepido,/ addolcirà la mia ansia.» (p.84).

Versi pulsanti di attese ansiose, suscitati da un dinamismo spiraliforme, elicoidale, che scandisce anafore, replicazioni. Movimento rappresentato da quella leonardesca vite senza fine che gira le porte dell’acqua e del tempo. Tempo senza fine, che, ruotando, fa del presente un nucleo del futuro proiettato nel passato. Versi che emanano una luce creaturale, luce come creatura che avvolge, accarezza, innalza irraggiante dal sole, tangente all’infinito. Luce come creazione, emanazione immanente delle cose. Luce-inchiostro, creazione scritturale, «metafora della poesia» (p.103), come rileva giustamente Ilaria Dazzi nella prima post-fazione. Scrittura viva che non viene dalle cose, ma viene a suscitarsi sulle cose, sulle cose si ri-produce, s’innesta e si moltiplica, innesca la sua adesiva, cosmica moltiplicazione: «la luce creaturale// l’ho vista venerdì mattina quando il sole/ ha superato radente la collina;/ radente innalzava/ radente accarezzava, radente// rasente veniva dalle cose/ ardeva tiepido sommesso colore/ delle cose a settembre// Questa luce-inchiostro/ che ha la proprietà dei mondi viene;/ viene a suscitarsi sulle cose// per il semplice fatto di essere viva» (p.39).

rinaldo caddeo

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