Attraverso Milano – I Incontro – Interventi su Kafka e Buzzati

Pubblicato il 25 novembre 2018 su Eventi Milanocosa da Adam Vaccaro

Biblioteca Sormani
Sala del Grechetto – Via Francesco Sforza 7

L’Associazione Culturale Milanocosa
Presenta
30 Ottobre 2018 – ore 17,30

Attraverso Milano
Staffette letterarie e artistiche

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Primo incontro

Franz Kafka e Dino Buzzati
A cura di
Luigi Cannillo

Con interventi di
Rinaldo Caddeo e Gabriele Scaramuzza
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Franz Kafka visita Milano per un paio di giorni nel 1911, ma lascia annotazioni precise nei suoi diari e tracce del soggiorno nelle suo lavoro letterario successivo. A distanza di decenni un milanese d’adozione, Dino Buzzati, saprà ricreare in alcune sue opere l’atmosfera tragica e grottesca dello scrittore praghese.

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Seguono sintesi degli interventi di Luigi Cannillo, Gabriele Scaramuzza e Rinaldo Caddeo

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A Milano, tracce di Kafka

di Luigi Cannillo

Tra i letterati e artisti che sono passati per Milano Franz Kafka può risultare uno dei più imprevisti, eppure il suo soggiorno è testimoniato da annotazioni precise nei diari e nel lavoro letterario successivo. Nei Diari di Kafka si alternano racconti, sogni, confessioni e, in particolare nelle pagine relative ai viaggi, si respira un’atmosfera particolarmente serena, mentre nei “fascicoli azzurri in ottavo” prevalgono piuttosto idee poetiche, frammenti, aforismi senza riferimenti al quotidiano. Come osserva Remo Cantoni nella sua nota introduttiva all’edizione italiana del 1953, nella traduzione di Ervino Pocar per Mondadori, dai Diari emerge in Kafka la rilevanza dello scrivere come necessità, come lotta per l’esistenza, ma anche – tra “sognante vita interiore” e desiderio di comunità. Ed è proprio questo che viene sollecitato e messo in luce dall’esperienza del viaggio. Dall’altro lato, come mette in rilievo Gabriele Scaramella nel suo Kafka a Milano, Mimesis, Milano, 2013, Kafka è affascinato dalla grande città moderna, e nelle sue rielaborazioni letterarie di grandi spazi urbani anonimi o interni labirintici possiamo riconoscere Praga ma anche suggestioni di Berlino, Vienna, Parigi, Milano, o magari di altre città conosciute in viaggio: Monaco, Budapest, Zurigo.. Così Praga nel Processo è luogo astratto dell’estraneità, della burocrazia, di un potere accentratore e tentacolare, ma in un suo capitolo risente, come vedremo, delle suggestioni della visita di Kafka del’interno del Duomo di Milano. E, in America, il grande albergo con gli spazi dilatati della hall e delle portinerie e il movimento frenetico e amplificato di turisti e staff ricorda l’Hotel Metropole nel quale l’autore ha soggiornato con l’amico Max Brod nel settembre del 1911.

Franz Kafka è stato quattro volte in Italia, di cui due volte in Lombardia e una sola volta a Milano, a 28 anni, nel 1911. Si tratta di poco piu di un giorno e una notte, ma lo scrittore riempie nei Diari sei pagine di annotazioni sulla citta, sulla Galleria, sul Duomo, sull’albergo dove alloggia, su una serata al Teatro Fossati e infine su una visita nel bordello ‘Al vero Eden’. Potremo seguire il percorso dei due amici anche grazie al “diario parallelo” di Max Brod, cronologicamente più preciso e altrettanto dettagliato, e dall’approfondito saggio di Franz Haas: Franz Kafka, il Duomo e le signorine del ‘Vero Eden” di Milano.

In occasione di un primo viaggio in Italia nel 1909. sul Lago di Garda. Kafka aveva tra l’altro assistito con Max Brod e Otto Brod, il fratello di Max, alla “Settimana aviatoria”, traendone spunto per scrivere il saggio Gli aeroplani di Brescia, nel quale non si occupa soltanto di tecnica aviatoria, ma anche di alcuni personaggi incontrati in quella occasione, da D’Annunzio a Puccini.
Due anni dopo, nel 1911, Kafka è di nuovo in viaggio con Max Brod, per un itinerario che li deve portare fino a Parigi. A Lugano leggono però sui giornali di un’epidemia di colera in Italia. Anche se Max Brod, ancora piu ipocondriaco di Kafka, preferirebbe non proseguire il viaggio, i due arrivano nel pomeriggio del 4 settembre alla Stazione Centrale. Gli amici lasciano i bagagli nel deposito della stazione e vanno a piedi verso il centro, sbagliano la strada e ad un certo punto si trovano davanti all’Ospedale Fatebenesorelle – oggi Fatebenefratelli – ma comunque raggiungono da lì via Manzoni e piazza della Scala: “Sotto gli archi dell’ingresso alla Scala l’abbiamo cercata e, di fronte alla facciata semplice e sgretolata, non ci siamo meravigliati dell’errore neanche quando uscimmo nella piazza.£ Attraversano la Galleria Vittorio Emanuele e subito dopo Kafka vede per la prima volta il Duomo: “Nella piazza del Duomo non si vede altro che il tram che gira lento intorno al monumento di Vittorio Emanuele”. La cattedrale, suscita in Kafka inizialmente solo un senso di disagio: “Il Duomo dà fastidio con tutte le sue guglie aguzze.”
L’albergo dove risiedono è il Grandhotel Metropole tra piazza del Duomo e l’odierna piazza Diaz. Secondo Brod è “l’albergo piu costoso in cui Kafka abbia mai alloggiato”. Il lussuoso hotel oggi non esiste piu; l’intero quartiere popolare del Bottonuto e stato demolito in epoca fascista per realizzare la costruzione dell’Arengario e l’asse di scorrimento di via Larga. Kafka gode la vista e il lusso dell’albergo, gode “dal letto un ampio panorama molto italiano”, e prova “gioia per la comunicazione fra le due camere, costituita da una porta doppia. Ognuno puo aprire una delle porte. Max ritiene che sia una cosa adatta anche per le coppie di coniugi.” Non e difficile, come sostiene anche il critico Hartmut Binder, “vedere nell’Hotel Metropole l’immagine primordiale dell’Hotel Occidental”, dove si svolge una buona parte del romanzo America. Soprattutto dalle annotazioni di Max Brod, dalla descrizione dell’ingresso, della centrale telefonica e della sala da pranzo, si puo dedurre che “l’Hotel Occidental possa essere visto come un Hotel Metropole sovradimensionato”. Nel romanzo questi ascensori sono talmente numerosi che il “dormitorio dei ragazzi d’ascensore[…] era una sala con quaranta letti”. Nel romanzo la centrale telefonica dell’Hotel Metropole viene tra in una grottesca sala macchine con condizioni di lavoro disumane tanto che gli “impiegati che avevano avuto il cambio si stiravano e poi si versavano acqua sulla testa infiammata piegandosi sopra due catinelle che erano tenute pronte”.
Nel tardo pomeriggio i due praghesi vanno dall’albergo alla vicina piazza dei Mercanti, fanno merenda, poi passeggiano per la Galleria Vittorio Emanuele che piace molto a Kafka: “Cosi piccoli come in Galleria non ho ancora mai visto gli uomini. […] Essa non ha, si puo dire, alcun ornamento superfluo, non trattiene lo sguardo, e per questa ragione, come anche per l’altezza, sembra corta, ma sopporta anche questo. Forma una croce nella quale l’aria circola liberamente.” In un caffe nella Galleria decidono di rimanere fino al pomeriggio del giorno successivo per vedere almeno i monumenti piu importanti di Milano.
Dopo la passeggiata nella Galleria gli amici vanno a cena e: dopo cena al Teatro Fossati vicino al Castello Sforzesco, un teatro – che oggi non esiste piu – specializzato in commedie popolari e dialettali. Kafka aveva imparato un po’ di italiano quando, qualche anno prima, lavorava nella filiale praghese delle Assicurazioni Generali, e c’era la possibilità di un trasferimento nella sede centrale a Trieste Ma il dialetto lombardo per loro è quasi del tutto incomprensibile. Restano annotate osservazioni sugli spettatori,gli attori e e l’ambiente, : “Tutti i cappelli e i ventagli in movimento. Risata di un bambino dall’alto. Reclame di Lancia compresa nelle pitture del soffitto d’un salone. Una ragazza dal collo lungo e sottile esce di corsa, con passi brevi e coi gomiti rigidi, facendo intuire i tacchi alti rispondendo al collo lungo”. Kafka e Brod lasciano il teatro prima della fine dello spettacolo e raggiungono una casa di piacere in via San Pietro all’Orto dal nome allusivo e promettente“Al vero Eden”. Ma l’atmosfera nel bordello non è di loro gradimento, troppo compassata e smaccatamente commerciale, come scrive anche Brod: “Niente balli, nessuna consumazione. Solo fissare nudo e crudo”. E Kafka ne approfittta almeno per annotare alcune caratteristiche delle persone: “La ragazza, il cui ventre, mentre stava seduta, era indubbiamente sformato sopra e fra le gambe divaricate, sotto l’abito trasparente, mentre nell’alzarsi il ventre si dilatò come le quinte d’un palcoscenico dietro ai veli formando, infine, un corpo femminile sopportabile”. Oppure: “Una figura da monumento che imperiosa infila nella calza il denaro appena guadagnato”. E ancora: “Quella accanto alla porta, il cui viso cattivo e spagnolo, il gesto di porre le mani sui fianchi pure spagnolo, mentre ella si stira dentro un abito a bustino, di seta da preservativi.”
La mattina successiva, quella del 5 settembre 1911, Kafka può finalmente visitare linterno del duomo: “Stupefacente ingresso al Duomo fra portiere brune (…) – Desiderio di delineare un quadro architettonico del Duomo perche esso e tutt’intorno una pura rappresentazione di architettura.” Kafka apprezza la quasi totale assenza di banchi nella cattedrale, le “poche statue alle colonne, pochi e soltanto scuri quadri alle pareti lontane”, trova tutto “sublime” . Nei Diari Kafka menziona solo brevemente le vetrate a colori del Duomo di Milano, ma in altre annotazioni su questo viaggio, scritte piu tardi a quattro mani insieme a Max Brod, riprende la stessa descrizione: “In ciascuno dei finestroni colorati predomina sempre il colore di un abito che si ripete nei singoli quadri.” Anche questa attenzione per le vetrate rende plausibile l’interpretazione di chi vede nel duomo descritto da Kafka nel romanzo Il processo un insieme tra il Duomo di San Vito a Praga all’esterno, e il Duomo di Milano all’interno. Infatti, la cattedrale di Praga non ha le dimensioni di quella di Milano. Quando Josef K., il protagonista del Processo, si reca all’appuntamento con il cliente italiano (!), “la vastità del duomo gli parve al limite della sopportazione umana”. E durante il colloquio con il cappellano delle carceri, Josef K. è talmente oppresso che non trova neanche un po’ di luce: “nel suo animo era gia notte fonda, nessuna vetrata a colori dei finestroni riusciva a interrompere la nera parete nemmeno con un barlume.”
Quando Kafka sale sul tetto del Duomo, abbagliato dalla luce del sole che attraversa le feritoie e i suoi occhi lentamente ci si abituano, puo ammirare ancora, questa volta dall’alto, il carosello dei tram intorno al monumento di Vittorio Emanuele a cavallo. Ricorda persino, o crede di vedere, questa scena resa cinematograficamente: ≪Un bigliettaio corre curvo e schiacciato, dal nostro punto di vista, verso il suo tranvai e vi monta con un salto≫. Kafka rimane poi colpito dalla forma di una garguglia: “Una doccia in forma umana alla quale sono sottratti la spina dorsale e il cervello affinche l’acqua piovana trovi una via”. Ammira ancora una vetrata a colori e la Galleria, e si rassegna per il fatto di non vedere “i resti romani antichi”, cioè le Colonne di San Lorenzo, nè il Castello Sforzesco: la partenza per Parigi è fissata per le tre del pomeriggio.
Ma Milano non resta definitivamente alle spalle. Sopravvive e germina nel processo creativo che porta alla stesura di America, nelle già citate scene ambientate all’Hotel Occidental nell’omonimo capitolo: “Nonostante ci fossero molti ascensori, spesso, in genere dopo la chiusura del teatro o dopo l’arrivo di certi treni espressi, cera un tale affollamento che Karl aveva appena il tempo di depositare i clienti ai piani superiori e di precipitarsi di nuovo al pianterreno a prendere quelli che aspettavano.” Oppure: “Le pareti della portineria erano fatte esclusivamente di enormi lastre di vetro, dalle quali si vedeva passare la folla nell’atrio come se ci si trovasse in mezzo […] Inoltre c’era sempre un rapporto diretto tra la portineria e l’atrio, perchè davanti alle due grandi finestre scorrevoli sedevano due sottoportieri, perennemente occupati a dare informazioni sugli argomenti più disparati.”
Nel romanzo Il processso” invece l’intero capitolo IX, “Nel Duomo” evoca le atmosfere e la dimensione della ampie navate del Duomo di Milano: “Anche il duomo pareva deserto, certo a nessuno veniva in mente di recarvisi proprio ora. K. Percorse le due navate laterali, incontrò solo una vecchia che avvolta in un caldo scialle, stava inginocchiata davanti a un immagine della Madonna e la fissava. Poi di lontano vide anche un sagrestano zoppo scomparire in una porta a muro. […] K. si sentiva un po abbandonato mentre passava tra i banchi vuoti, da solo, forse osservato dal sacerdote, e anche la vastità del duomo gli pareva al limie di quanto un uomo possa sopportare.”
Le tracce di Kafka che percorre le strade di Milano riportano quindi a tracce di Milano nelle opere di Kafka. Così i percorsi di viaggio, quelli annotati nei diari e quelli dell’opera letteraria si richiamano e si intrecciano, dall’asfalto alla pagina e viceversa. Così sovrappongono o diramano mappe di scoperta e interpretazione fra luoghi reali, spazi percepiti e scenari immaginari resi eterni in ambientazioni letterarie.

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Kafka e Milano
di Gabriele Scaramuzza

Milano è la città italiana che più è presente nei diari di viaggio di Kafka. Dobbiamo a Guido Massino il primo studio circostanziato sul tema. Rapide ma gustose notazioni sono dedicate da Kafka alla nostra città, visitata nel settembre 1911: il Teatro Fossati, la Galleria, il Duomo (che non a caso si dice ispirasse anche l’interno del Duomo nel cap. IX del Processo), il corso Vittorio Emanuele, la stazione, la Banca Commerciale, Piazza dei Mercanti, un bordello .
Milano a suo modo restituì quest’attenzione, e resta tra le prime città italiane in cui Kafka fu oggetto di considerazione. Gli esponenti della “Scuola di Milano” che ne scrissero si inseriscono in un discorso che a Milano si era aperto fin dagli anni ’20. Per merito di Lavinia Mazzucchetti innanzitutto, che accenna allo scrittore praghese fin dal ’24, e poco dopo dedica la prima recensione non-tedesca in Europa al Processo appena edito.
In ambiente banfiano l’interesse per Kafka covava sotto la cenere fin negli anni ’30, quando compaiono le prime traduzioni di Kafka in italiano. Ma è nell’immediato dopoguerra che il caso Kafka scoppia nella cultura italiana, con una vivacissima risonanza nella cultura milanese. Il Politecnico nell’ottobre del ’47 pubblica traduzioni di brevi inediti kafkiani, accompagnate anche da interventi di Carlo Bo e di Franco Fortini . Ma già era apparsa una recensione di Giosue Bonfanti a America ; qualche attenzione a Kafka dedicarono poi Paolo Rossi e, come vedremo, Luciano Anceschi. Un infelice accenno di Banfi, in cui Proust e Kafka vengono accomunati come “punte estreme della cultura d’evasione” – presumibilmente un’indiretta risposta a Cantoni – è da dimenticare.
Dino Formaggio (di cui ricorre quest’anno il decimo anniversario della scomparsa) dedica nel ’49 all’edizione italiana del Castello curata da Cantoni una recensione, in cui pone l’agrimensore K. sulla stessa linea del suo Don Chisciotte. La figura dell’Agrimensore è vista anche come una sorta di “profondo Faust contemporaneo”, sempre instancabilmente, malgrado ogni prova contraria, teso a perseguire il sogno di realizzazione di sé nel Castello, con ostinazione e volontà adamantina. K. è del tutto “solo” a combattere una lotta epica, “perturbatrice della quiete servile e delle regole padronali”, contro i “burocrati ottusi e pedanti” che dominano il villaggio ai piedi del castello. Nella propria lotta “non esita a gettare tutta la propria vita”; e “non importa se lo fiaccheranno a mezza via, gli importa di battersi sino all’estremo delle sue forze”. Sembra accettare il proprio destino, ma anche vuole discuterlo sempre, radicalmente: “vuole conoscere, oltre alle equivoche e illusorie forme della vita, il senso vero e profondo del proprio cammino” .
Indiscutibile resta comunque il ruolo pionieristico di Remo Cantoni (negli anni in cui non a caso uscirono anche i suoi libri su Dostoevskij e su Kierkegaard) nella scoperta e nella diffusione di Kafka tra noi; i suoi scritti restano anche sintomatici di un clima di discussioni (su cultura e impegno politico, sul ruolo degli intellettuali, sul senso e il valore dell’arte contemporanea), di polemiche, di contrasti tipici della cultura di allora. Il suo atteggiamento aperto e simpatetico verso Kafka, del tutto irriducibile a pregiudizi e a moralismi a sfondo vuoi reazionario vuoi progressista – allora non di rado ricorrenti – non ha perso per noi il suo sapore. In questo quadro tanto più resta significativo il suo saggio del ‘48, che dei suoi scritti kafkiani costituisce il preludio. In esso già affiorano le pietre miliari di una via personale a Kafka: temi che torneranno nell’ampio arco di tempo (un trentennio quantomeno, fino alle soglie della morte) in cui si distende la lunga consuetudine di Cantoni con Kafka.
Questo saggio contiene affermazioni che diverranno luoghi comuni nella critica kafkiana; ma non è detto debbano per questo risultare oggi destituite di senso. In primo luogo Cantoni è ispirato dal tema banfiano-fenomenologico della “sensibilità per la fresca ricchezza dell’esperienza, per la varietà dei suoi sensi e delle sue articolazioni”, e del dovere di non irrigidirla “secondo astratti e parziali schemi teorici e formule valutative” – dove esperienza è esperienza di testi, e l’avvertimento si traduce nel ritorno insistito del proposito di “lasciar parlare Kafka” senza sopraffare la sua voce.
Cantoni si mostra consapevole di quanto sia problematico eludere i “kafkismi”, o comunque di quanto illusorio sia sfuggire a prese di posizione personali. Solo, sposta la propria presa di posizione ai limiti della più ampia “comprensione” possibile dei testi, quantomeno di quella comprensione che meglio riesce a render ragione della loro “complessità” – un termine tipicamente banfiano. Questo si traduce in un approccio multilaterale ai testi, fatti valere come idea-limite verso cui confluisce una serie di approssimazioni idealmente illimitata.
In questo stesso contesto non è possibile tacere il nome di Enzo Paci, che a Kafka dedicò il saggio più significativo (a parte i contributi di Cantoni ovviamente) in ambito milanese. Posto di fronte alla celebre alternativa lukácsiana – Franz Kafka o Thomas Mann? – certo Paci avrebbe scelto Mann. Come Banfi del resto, anche se il Mann cui andavano le preferenze degli allievi formatisi a Milano negli anni Trenta non era il Mann dei Buddenbrook privilegiato dal maestro, bensì quello del Tonio Kröger e di Der Zauberberg.
L’attenzione a Kafka si inscrive perfettamente nell’atteggiamento simpatetico che Paci ebbe verso altri grandi contemporanei: da Proust a Valéry, da Eliot a Rilke, da Stravinskij e Schönberg a Wright. Ma insieme, e più a fondo, anche si colloca in una cornice di pensiero che verso l’arte non mostra una considerazione soltanto teorica, e tra filosofia e letteratura non ipotizza incomponibili lacerazioni, bensì dichiarate complicità. Per Paci l’arte fu costante oggetto di partecipato interesse e, al tempo stesso, costituì una fonte insostituibile di ispirazione e un ambito privilegiato di verifica del pensiero; senza contare che istanze estetiche ne intrisero il filosofare.
Nel saggio Kafka e la sfida del teatro di Oklahoma l’interesse di Paci per Kafka dà i suoi frutti più maturi; in esso s’intrecciano motivi di fondo del suo pensiero di allora, ma anche si riflette il clima di quegli anni chiusi tra i fatti di Budapest e quelli di Praga, che inducono gli intellettuali di sinistra a sofferti ripensamenti. In questo contesto intorno a Kafka si ingaggia, al di qua e al di là della cortina di ferro (e con eco vivace anche da noi), una complessa battaglia politico-culturale, che ne fa una sorta di banco di prova di opposte prese di posizione ideologiche anche all’interno della cultura di sinistra.
Inutile dire che Paci è del tutto dalla parte della sinistra culturalmente più avvertita e meno dogmatica. Sono gli anni del suo tentativo di intrecciare fenomenologia e marxismo, e di una terminologia mutuata da entrambi risente questo suo scritto kafkiano. Il tema della soggettività concreta e la conseguente critica di ogni forma di obiettivismo tornano qui con insistenza: Kafka ha a che vedere per Paci con la denuncia dell’alienazione, della reificazione dell’uomo, della disumanità del mondo moderno. E in questo riecheggia il Günther Anders di Kafka pro und contra (interlocutore privilegiato anche di Cantoni): “Attraverso la sua tecnica dell’estraniazione, Kafka scopre l’estraniazione mascherata della vita quotidiana: e quindi, in tal modo, è di nuovo realista. La sua ‘deformazione’ ‘constata’” .
Nel 1949, infine, Luciano Anceschi pubblica una recensione del libro di Navarro su Kafka , in cui sia pur marginalmente coinvolge Paci, e lo assolve preventivamente dai rischi annessi a interpretazioni esistenzialiste di Kafka. Lo assolve perché coglie, nell’atteggiamento critico dell’amico, qualcosa di non facilmente riducibile a modi unilaterali di accostare le opere d’arte. L’obiettivo polemico di Anceschi è infatti quel modo di leggere Kafka, che ne dimentica la sostanza letteraria a tutto vantaggio dei veri o presunti contenuti concettuali; che dissolve cioè l’espressione artistica in motivi speculativi, etici, sociali, politici o altro. Con implicito invito a una lettura di Kafka che non incorra in quei “kafkismi”, che di lì a poco Mittner puntualmente stigmatizzerà .

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BUZZATI e MILANO

di Rinaldo Caddeo

Tranne i primi due romanzi, Milano è onnipresente nell’opera di Buzzati e varia a seconda del contesto narrativo. Non c’è una sola Milano.
C’è la Milano elegiaca della conclusione di Paura alla Scala, con il netturbino all’alba e la fiorista che porge un fiore a una dama esterrefatta della borghesia (terrorizzata dall’arrivo dei Morzi che, poi, non arrivano).
C’è la Milano losca e insolente di Un Amore.
La Milano verticale e vertiginosa della Ragazza che precipita da un grattacielo e diventa stellina alla fine della caduta.
La Milano fosca, visionaria e baluginante delle periferie turbinanti e puzzolenti in Viaggio agli inferni del secolo, passando attraverso un pertugio scavato nella MM (in Il colombre).
La Milano futuristica delle corse in bicicletta delle Lettere a Brambilla.
La Milano neo-gotica del Poema a fumetti.
E pure Milano è una sola, anche la Milano di Buzzati: in che senso?

Parto da un famoso quadro degli anni ’50: Il Duomo di Milano.
Una montagna che assume la forma di una cattedrale: potrebbe essere interpretata come un’operazione visiva di decontestualizzazione concettuale alla Magritte o come un sogno simbolico alla Max Ernst o alla Salvador Dalì.
Io, invece, partirei da una didascalia (da me trovata su youtube) che accompagnava questo quadro: ignari superstiti di un cataclisma. Chi sono?
Sono i contadini, minuscole figurine, che raccolgono il fieno in una piazza, ridotta a verde prato di montagna, sotto un cielo blu, davanti a un Duomo bianco, pietrificato.
A quale cataclisma allude?
Probabilmente, a una guerra nucleare che ha distrutto la civiltà moderna e ne ha cancellato la memoria. Il Duomo pietrificato diventa il paradigma della catastrofe e dello svuotamento.
La forma di queste montagne, con le guglie dolomitiche che richiamano le guglie dell’architettura gotica, assume, con questa didascalia, uno stigma profetico per noi spettatori pre-catastrofe. Non per quei contadini, i nostri ignari discendenti post-catastrofe, per i quali il Duomo, la Galleria Vittorio Emanuele e tutti gli edifici circostanti, sono, probabilmente, solo delle montagne.
Una sorta di apocalisse ha cancellato il tempo storico. Una parte ridotta di umanità è sopravvissuta ma è ritornata indietro, iniziando una vita nuova, forse migliore, che ignora quella precedente. Non ci sono automobili, metropolitana, illuminazione elettrica, turisti. Tutto spazzato via. I contadini usano falci manuali e ammucchiano il fieno su di un carro trainato da buoi. Immersi nelle loro immemori attività, sembrano sereni. A contatto con la natura, forse sono meno infelici di noi borghesi, complessati e nevrotici.

C’è una contrapposizione archetipica da cui partire.
Le Dolomiti, nella biografia/biologia di Buzzati sono la patria delle vacanze, dell’immaginario (infanzia, emozioni forti, avventura, libertà, epifanie), del principio di piacere. Dino Buzzati nasce il 16 ottobre 1906 nella villa di San Pellegrino, nei paraggi di Belluno, dove la famiglia trascorre l’estate e dove Dino trascorrerà le sue estati, dedicandosi alla sua attività preferita: l’alpinismo.
La città, Milano, è la patria degli studi e del lavoro, del principio della realtà e del dovere. Qui, dove suo padre è docente di diritto alla Bocconi, studia al liceo classico Parini, si laurea, fa la scuola di allievo ufficiali, lavora a Il Corriere della Sera. E Milano è una: in quanto città/civiltà, polo antitetico della montagna/natura, rappresenta tutte le città del mondo.
Ne Il deserto dei tartari il contrasto tra città da una parte e montagna-deserto dall’altra, è sviluppato a partire dal dissidio interiore del protagonista, Giovanni Drogo. Nella prima parte, in linea di massima, la città è luogo trasognato dei desideri e degli affetti, del sentimento di intimità, l’altrove dove esistono ancora le cose assenti nella fortezza («fiori, donne ridenti, case allegre e ospitali» cap.III, pag.42), l’unico luogo del romanzo in cui sono presenti, sia pure con un ruolo secondario, dei personaggi femminili. La montagna, con la sua Fortezza, si presenta come luogo di deprivazione, un non-luogo, aspro e ostile. Fin dai primi capitoli s’innesca, però, una contesa tra repulsione e attrazione nei riguardi della fortezza/deserto, che porterà l’altro polo (la città) a soccombere. Quando con il capitano Ortiz, incontrato lungo la strada, Drogo arriva alla Fortezza, il primo impulso, tale è l’oppressione che prova alla sua vista, è quello di tagliare la corda: «Oh, tornare. Non varcare neppure la soglia della Fortezza e ridiscendere al piano, alla sua città, alle vecchie abitudini.» (fine cap.II, pag.41). E sta per farlo ma il fascino ipnotico, che emana dal silenzio, dalla scabra nudità del luogo, dai movimenti meccanici delle sentinelle, entra in azione, lo spaventa e nello stesso tempo lo trattiene. Si sviluppa quel conflitto interiore che porta a un rovesciamento. La città da centro affettivo-materno, diventa un non-luogo, privo di ogni attrattiva, in cui Drogo si sente un estraneo quando ritorna in licenza dopo quattro anni: «Girava la città in cerca dei vecchi amici – ed erano stati molti – ma finiva per ritrovarsi solo su un marciapiedi, con tante ore vuote davanti prima di far venire la sera.» (inizio cap. XVIII). Ci sono tre capitoli ambientati nella città (il XVIII, il XIX, il XX), gli unici del romanzo al di fuori delle montagne. In essi la città è pressoché invisibile (ci sono solo delle stanze), in dialoghi spettrali prevalgono i silenzi e i sottointesi.
La libertà autentica è quella scandita dai turni di guardia e dai rituali militari della Fortezza, dalle sue “geometriche leggi”, e la montagna, con il suo deserto, diventa l’oggetto del desiderio, l’unico posto al mondo in cui ha un senso vivere poiché c’è uno sguardo.

One comment

  1. Laura Cantelmo ha detto:

    Grazie di aver lasciato consistente traccia dell’incontro su Kafka e Buzzati a Milano.
    Ne faremo tesoro per i prossimi incontri di Attraverso Milano.

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